Ero solo come un ombrello su una macchina da cucire. Dalle pendici dei monti Iblei, a settentrione, ho percorso il cammino, arrampicandomi per universi e mondi, con atti di pensiero e umori cerebrali. L’abisso non mi chiama, sto sul ciglio come un cespuglio: quieto come un insetto che si prende il sole.

da "L'ombrello e la macchina da cucire", F.Battiato

martedì 22 marzo 2011

Ancora Guccini: "Incontro"

"Incontro" è, a mio parere, una delle canzoni più belle di Guccini. Ha quel sottile velo di malinconia, fatto di occasioni mancate, di giorni 'perduti a rincorrere il vento'(come dice De Andrè), di rimpianti, che avvolge una storia apparentemente banale - un ritrovarsi dopo molti anni, dopo la fine della giovinezza, di molti sogni e illusioni - facendola risuonare dell'amara consapevolezza di una sconfitta. Sconfitta che è in primo luogo personale: i protagonisti della canzone hanno dovuto abbandonare i loro aneliti a un'esistenza diversa rispetto alla realtà in cui erano cresciuti per calarsi nell'identico grigiore da cui avevano sognato di fuggire. La vita, il tempo hanno lasciato segni indelebili su di loro e forse sull'intera loro generazione, su quella generazione che aveva vagheggiato l'America e aveva dovuto infine accettare quella che Guccini chiama la nostra città tanto triste.  Ciò che resta è solo un senso di disorientamento, che viene espresso nell'ultima strofa.
Sulla genesi della canzone il cantautore di Pavana disse: "'Incontro' parla di un'amica mia che, bontà sua, era innamorata di me. Era anche molto carina, ma aveva poche tette e io ero molto sensibile all'argomento (...) Poi si trasferì a Berlino e fu lì che s'innamorò di un altro, un tipo piuttosto instabile, purtroppo: s'impiccò. Al suo ritorno in Italia, la mia amica venne subito a cercarmi per raccontarmi cos'era successo. Andai a trovarla e dopo quel pomeriggio trascorso insieme scrissi 'Incontro'".
La canzone fu pubblicata nel capolavoro "Radici"(1972); di seguito vi propongo il testo e un Guccini d'annata che esegue "Incontro" al programma "Ciao torno subito" nel 1973.

 E correndo, mi incontrò lungo le scale, quasi nulla mi sembrò cambiato in lei;
la tristezza poi ci avvolse come miele per il tempo scivolato su noi due.
Il sole che calava già rosseggiava la città
già nostra e ora straniera e incredibile e fredda. 
Come un istante deja vu, l'ombra della gioventù, ci circondava la nebbia...

Auto ferme ci guardavano in silenzio, vecchi muri proponevan nuovi eroi,
dieci anni da narrare l'uno all' altro ma le frasi rimanevan dentro in noi:
"Cosa fai ora? Ti ricordi? Eran belli i nostri tempi,
ti ho scritto - è un anno - mi han detto che eri ancor via".
E poi la cena a casa sua, la mia nuova cortesia, stoviglie color nostalgia...

E le frasi, quasi fossimo due vecchi, rincorrevan solo il tempo dietro a noi,
per la prima volta vidi quegli specchi, capii i quadri, i soprammobili ed i suoi.
I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway,
il sentirsi nuovi, le cose sognate e ora viste:
la mia America e la sua diventate nella via la nostra città tanto triste...

Carte e vento volan via nella stazione, freddo e luci accesi forse per noi lì
ed infine, in breve, la sua situazione, uguale quasi a tanti nostri films:
come in un libro scritto male, lui s' era ucciso per Natale,
ma il triste racconto sembrava assorbito dal buio:
povera amica che narravi dieci anni in poche frasi ed io i miei in un solo saluto...

E pensavo dondolato dal vagone: "Cara amica il tempo prende il tempo dà...
noi corriamo sempre in una direzione ma qual sia e che senso abbia chi lo sa...
restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento,
le luci nel buio di case intraviste da un treno:
siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno..."




Nessun commento:

Posta un commento