Ero solo come un ombrello su una macchina da cucire. Dalle pendici dei monti Iblei, a settentrione, ho percorso il cammino, arrampicandomi per universi e mondi, con atti di pensiero e umori cerebrali. L’abisso non mi chiama, sto sul ciglio come un cespuglio: quieto come un insetto che si prende il sole.

da "L'ombrello e la macchina da cucire", F.Battiato

mercoledì 27 aprile 2011

Assignment 6 parte 2: su PubMed e sull'inutile settarismo delle riviste scientifiche

"E' come chi decide di fare il filosofo e chi il medico, secondo te chi decide della vita di una persona?"
"Il medico"
"Bravo. Il medico. Perché puoi decidere della vita delle persone.(...) Salvarli o non salvarli. E' così che si fa il bene, solo quando puoi fare il male. Se invece sei un fallito, un buffone, uno che non fa nulla. Allora puoi fare solo il bene, ma quello è volontariato, uno scarto di bene.(...)"
Sarà anche per questo che mi sono laureato in filosofia, per non decidere al posto di nessuno.
(da Roberto Saviano, "Gomorra", 2006)


Ho trovato questo dialogo tra Saviano e il padre medico leggendo "Gomorra", qualche mese fa. Mi è capitato nuovamente tra le mani di recente e mi è sembrato giusto inserirlo come appendice del post precedente. Di fatto, sintetizza molte delle questioni che avevo sollevato in quella sede e l'immagine del "medico che decide al posto degli altri", che "fa il bene perché può fare anche il male" mi sembra molto eloquente riguardo ad una certa visione 'superomistica' dell'uomo di scienza.
Detto questo, devo dire che lo spirito con il quale PubMed è stato creato mi è sembrato nobile: solo se ogni singolo ricercatore di ogni singola università di ogni angolo della terra condivide i risultati dei propri studi è possibile un rapido avanzamento delle conoscenze, evitando, ad esempio, che alcuni studiosi non raggiungano i propri obiettivi perché ignorano ciò che dall'altra parte del globo è stato scoperto poco tempo prima.
L'applicazione, tuttavia, mi ha lasciato molto perplesso. Anche utilizzando il proxy della facoltà, infatti, un numero molto elevato di articoli rimane inaccessibile. Le riviste non permettono di accedervi o, per farlo, richiedono contributi molto onerosi. A questo punto, mi domando a cosa serva condurre delle ricerche destinate ad essere recepite da pochissimi addetti ai lavori. Certo, è ovvio che non tutti si occupano di tutto, pertanto ogni ricercatore leggerà con attenzione soprattutto le pubblicazioni relative al proprio ambito. Tuttavia, precludere a ciascuno la possibilità di accedere a ciò che non è strettamente specifico del suo campo di ricerca, impedire la visione di gran parte dei documenti presenti su PubMed a chi, per interesse o per semplice curiosità, vuole leggere qualcosa di avulso dagli studi che abitualmente svolge vuol dire coltivare una visione settaria del sapere medico-scientifico, mirare ad una sua iperspecializzazione. Tuttavia, l'oggetto della ricerca, l'uomo, resta un organismo unico, in cui tutto è strettamente interconnesso. Cercare di 'smembrarlo', di farne tanti pezzettini da studiare indipendentemente gli uni dagli altri, può anche servire da un punto di vista metodologico, ma è come sapere tutto sul nono canto del Purgatorio di Dante e ignorare completamente il resto della Divina Commedia.
Si perde tutta la poesia dell'insieme.

giovedì 14 aprile 2011

Assignment 6 parte 1: contro la 'sacralità' della scienza

Casualmente, la sera in cui ho letto gli articoli per l'Assignment 6 parte 1 sono anche finito sul blog Magic and Medicine, dove ho scoperto l'esistenza di un Premio IgNobel per le ricerche scientifiche meno utili all'umanità. L'unione delle due cose - le osservazioni sulle statistiche in cui ad ogni segno zodiacale era associata una diversa predisposizione per una determinata malattia e gli interessanti studi del signor Witcombe sugli effetti collaterali del mangiare spade - ha prodotto in me la reazione che talvolta ho leggendo sui giornali che serissimi studiosi di una university qualsiasi di un qualsiasi stato americano hanno profetizzato la scomparsa, entro il 2133, dei capelli rossi dal fenotipo umano o l'estinzione dell'intera umanità nel giro di due anni. Una sensazione in cui coesistono umorismo("Guarda un po' che cosa hanno tirato fuori questi") e una leggera inquietudine, data dal fatto che comunque, quando qualcosa è introdotta dalla parola scienza è di per sè credibile e degna di fede, "qualcosa di vero ci deve essere".
Forse, scoprire che le ricerche che appaiono folli a me lo sono anche per altri, che nelle statistiche scientifiche è molto facile sbagliare e che non sempre ciò che viene mostrato come correlato lo è realmente, mi può aiutare a sottrarre alla divinità positivistica della Scienza quella sacralità che ciascuno di noi, inconsciamente le dà. La scienza non sbaglia, la scienza fa sempre qualcosa per un motivo: sono frasi che ad ognuno sono passate per la mente almeno una volta; invece, ciò che ammantiamo di valore quasi divino non è che, ahimè, qualcosa di  umano, troppo umano come direbbe il buon Federico Nietzsche. Quante scoperte "risolutive" contro il cancro o l'AIDS sono state annunciate in questi anni e poi ridimensionate al più modesto ruolo di "passi avanti"? Quanti errori, nel corso della storia, sono stati compiuti da personaggi che si proclamavano uomini di scienza, quante atrocità?
Recentemente, su La7, mi è capitato di vedere Ausmerzen, di Marco Paolini, sullo sterminio dei cosiddetti "matti" nella Germania nazista. Sterminio che fu condotto da medici, coordinato dai migliori psichiatri dell'epoca. Uomini di scienza, tra i massimi rappresentanti della scienza di quel tempo.
Farò bene a ricordarmene, la prossima volta che, senza alcuno spirito critico, accetterò come dogma assoluto ciò che porta su di sè la parola "scienza".

giovedì 7 aprile 2011

"Una volta questo era un gran bel paese": la libertà amara di "Easy Rider"


E' un ancora sconosciuto Jack Nicholson a rendere esplicito il duro giudizio sull'America perbenista e bigotta che è centrale nell'intero film Easy Rider. Poco più tardi, il personaggio da lui interpretato sarà pestato a sangue e ucciso proprio da uomini come coloro di cui parla in questo monologo, come quanti, sul finire degli anni Sessanta, non accettavano la protesta pacifica dei giovani hippies e avevano paura della loro libertà.
E' un film molto amaro, Easy Rider. La trama è semplice: due mototoclisti, interpretati dal compianto Dennis Hopper e da Peter Fonda, partono da Los Angeles per raggiungere New Orleans, in Louisiana, per il Martedì grasso. Ma il loro viaggio diverrà un'immersione nel cuore nero d'America, in quell'America profonda da sempre reazionaria e ostile ad ogni mutamento e, al contempo, esso sarà un'affermazione di libertà, di una libertà totale che bene sembra accompagnarsi agli immensi spazi aperti che Billy (Hopper) e Capitan America(Fonda) attraversano in moto e al rock che costantemente commenta il loro vagare.
I protagonisti del film sono figli di Kerouac, certo, di quella Beat Generation che per prima aveva reso l'errare senza meta il più grande atto di ribellione contro una società, quella americana, i cui unici valori sono il lavoro e il successo personale, ma la vera ispirazione per il film viene da altro. Da un film uscito negli States come The Easy Life e che era stato girato da Dino Risi nel 1962. 
Il sorpasso è infatti il modello cui si ispirerà Hopper per Easy Rider e non è difficile cogliere le affinità tra il viaggio di Vittorio Gassman e di Jean Louis Trintignant attraverso l'Italia del boom economico e il vagare libero di Billy e Captain America.
Oltre al valore storico e di denuncia del film, c'è però una cosa che resta in testa una volta che si è finito di vedere Easy Rider ed è la colonna sonora. Da essa è tratto il brano che segue: Born to be wild.

domenica 3 aprile 2011

Il sud sognante di Battiato: "Giubbe rosse"

Ho ascoltato questa canzone per la prima volta a quattordici-quindici anni, in una delle tante estati trascorse nel paese natale di mio babbo in Abruzzo. L'immagine che ne riportai - e che mi torna ancora alla mente, quando la risento - è quella di un Sud archetipico, di un luogo in cui ancora è possibile, almeno nel calore di un pomeriggio di luglio, cercare qualcosa che si sente di aver perduto. Cercare delle "radici", un collegamento con qualcosa di atavico e primordiale che altrove è precluso.
Forse è per questo che Battiato attualmente passa molto tempo nella sua casa sull'Etna, a dipingere e meditare.
La canzone fu inserita per la prima volta nel disco live Giubbe Rosse del 1989. Di seguito trovate il testo.

Abito in una casa di collina
e userò la macchina tre volte al mese
con 2000 lire di benzina
scendo giù in paese.
Quante lucertole attraversano la strada
vanno veloci ed io più piano ad evitarle.
Quanti giardini di aranci e limoni
balconi traboccanti di gerani
per Pasqua oppure quando ci si sposa
usiamo per lavarci
petali di rose
e le lucertole attraversano la strada
com'è diverso e uguale
il loro mondo dal mio.
Vivere più a sud
per trovare la mia stella
e i cieli e i mari
prima dov'ero.
Passare dal mercato del pesce
prendere i collari in farmacia per i cani
e ritirare i vetri cattedrale del gazebo.
Il fuoco incandescente del vulcano
allontanò il potere delle Giubbe Rosse
e come sembra tutto disumano
e certi capi allora e oggi
e certe masse
quanti fantasmi ci attraversano la strada.
Ritornare a sud
per seguire il mio destino
la prossima tappa
del mio cammino in me
per trovare la mia stella
e i cieli e i mari
prima dov'ero.


 

sabato 2 aprile 2011

Assignment 4: social bookmarking, "Opera Italia" e un Toscanini d'annata

Non conoscevo il social bookmarking e forse l'uso che ne faccio non è quello per cui delicious.com è stato creato. Non credo infatti che me ne servirò per trovare i miei segnalibri anche quando non sto utilizzando il pc di casa (la vecchia cara ricerca su google ha ancora un suo certo fascino); preferisco utilizzarlo per parlarvi di qualcosa che, senza il social bookmarking, forse mi avrebbe costretto a postare una decina di video di seguito mettendo a dura prova la vostra pazienza. Devo dire che delicious.com si presta molto allo scopo, per cui sono abbastanza soddisfatto di aver imparato a usarlo.
Più sotto, trovate il link alla mia pagina di delicious.com, da dove potete collegarvi a un po' di video che racchiudono le tre puntate di un programma della BBC che in Italia è andato in onda su rai3 a orari improponibili, nel cuore della notte, alla fine di dicembre, quando il sottoscritto aveva la testa mediamente stipata di fenil-osazoni, fenil-idrazoni e affini. Purtoppo, non sono riuscito a trovare la versione in italiano, per cui gli interessati dovranno vederlo nella versione originale in inglese (comunque, se sono riuscito a capirlo io...).
E' un programma condotto dal noto direttore d'orchestra italo-inglese Antonio Pappano che ripercorre la storia di uno dei prodotti più caratteristici della produzione musicale italiana: l'opera. Dagli inizi, all'inizio del Seicento, con Monteverdi, al finale incompiuto di "Turandot"(Puccini morì prima di concludere il lavoro), Pappano accompagna lo spettatore, con l'entusiasmo del melomane e la competenza del musicista, attraverso la lenta evoluzione di un genere spesso molto amato o molto odiato.
La prima puntata è relativa all'origine dell'opera e a Rossini, la seconda riguarda Giuseppe Verdi, la terza Puccini; le trovate su http://www.delicious.com/ombrelloemacchinags.
Vi lascio con l'overture della "Forza del destino" di Verdi, diretta nel 1944 per la NBC da Arturo Toscanini.

mercoledì 30 marzo 2011

Pace, amore ed LSD: la psichedelia dei Jefferson Airplane


"Una pillola ti fa diventare più grande,/ una pillola ti fa diventare piccolo/e quelle che ti dà la mamma non ti fanno assolutamente nulla./Prova a chiederlo ad Alice/ quando è alta dieci piedi". Mescolando LSD e Carroll, i Jefferson Airplane diventano noti al grande pubblico nel 1967 grazie a White Rabbit, rilettura in chiave psichedelica di "Alice nel Paese delle Meraviglie", e a Somebody to Love. Gruppo interessante, i Jefferson Airplane, con una delle migliori cantanti di quegli anni (quella Grace Slick che aveva fatto per breve tempo, in precedenza, la modella e che certamente, con la sua presenza scenica e la sua voce da contralto, contribuirà in modo decisivo al successo della band) e con la capacità di accompagnare, con la propria musica, ogni passo di quel periodo turbolento che si apre con la Summer of Love del 1967 e si chiude, a detta di molti, con la tragedia di Altamont (la "fine delle illusioni", nel 1969, in cui gli Hell's Angels che avrebbero dovuto garantire la sicurezza ad un festival rock uccisero un ragazzo afroamericano, Meredith Hunter).
Ma per essere colonna sonora di un'epoca è necessario cambiare spesso stile e quegli stessi Jefferson Airplane che, nel 1967, cantavano l'amore, le droghe e scrivevano inni flower power, nel 1969 porteranno a Woodstock il duro brano pacifista Volunteers, dove i "volontari" del titolo sono una generazione che va "alla rivoluzione". Quanto di più distante, dunque, dall'ingenuità dell'estate dell'amore, uccisa forse il 4 aprile 1968 insieme a Martin Luther King. Nella canzone, si respira l'aria pesante del primo anno della presidenza di Richard Nixon, che aveva vinto le elezioni proprio facendo appello a quella "maggioranza silenziosa" contraria alle idee dei giovani contestatori.
Qui sotto trovate il testo di Volunteers e l'esibizione dei Jefferson Airplane a Woodstock.

Look what's happening out in the streets
Got a revolution Got to revolution
Hey I'm dancing down the streets
Got a revolution Got to revolution

Ain't it amazing all the people I meet
Got a revolution Got to revolution

One generation got old
One generation got soul
This generation got no destination to hold
Pick up the cry

Hey now it's time for you and me
Got a revolution Got to revolution
Come on now we're marching to the sea
Got a revolution Got to revolution

Who will take it from you
We will and who are we
We are volunteers of America




lunedì 28 marzo 2011

The Who, "Tommy" e la prima opera rock


Così comincia Tommy. La prima opera rock della storia, secondo le cronache - in realtà preceduta di pochi mesi da Arthur dei Kinks e da S.F.Sorrow dei Pretty Things - fu pubblicata dagli Who nel 1969 e acquistata dal sottoscritto più o meno trentacinque anni dopo. E' un album di un'altra epoca, Tommy, di un'epoca in cui i dischi si incidevano non per dare un involucro più costoso a due o tre singoli di successo ma per cercare di trasmettere un'idea, di far entrare, per il breve spazio delle canzoni contenute sulla facciata dell'LP, l'ascoltatore in una dimensione diversa. Tommy non racconta semplicemente la storia di un bambino che diventa cieco, muto e sordo per aver assistito all'omicidio dell'amante della madre da parte del padre e che, una volta cresciuto, riesce a recuperare i sensi perduti; esso è piuttosto una cavalcata in un mondo onirico, popolato di personaggi grotteschi e caricaturali attraverso una musica capace di mutare sempre, adeguandosi allo svolgersi della vicenda allucinata del protagonista.
Di questo album gli Who realizzarono anche una versione cinematografica che però risulta secondo me abbastanza deludente. E per un motivo: nel film, al centro si ha la storia di Tommy, che è abbastanza inverosimile, si ha l'assurda pretesa di poter fare una sorta di opera con tanto di personaggi che cantano. Nel disco, invece, Townshend fa emergere una sua nitida denuncia contro un mondo ipocrita, violento e oppressivo; Tommy diventa il simbolo di chi da quel mondo è isolato e il finale, con il protagonista che riacquista vista, udito e ricomincia a parlare non è che una speranza, la speranza di una riconciliazione, di una integrazione in quella realtà, divenuta più accogliente.
Di seguito, un frammento del film Tommy con Christmas e See me, feel me, autentico grido di dolore, quest'ultimo, lanciato dal protagonista in più punti dell'album.

domenica 27 marzo 2011

Assignment 3 (& "The Crystal Ship" dei Doors)

Ripensandoci, in effetti è vero. Che tutto quello che so e ho imparato sulla Francia della Restaurazione e della monarchia di Luglio viene soprattutto dalla lettura di Stendhal piuttosto che dal paragrafo 14 o 22 del tomo B di un libro di storia. Che ho capito realmente la rivoluzione russa sulle pagine di Majakovskij e la guerra di Spagna guardando il film (splendido) Terra e Libertà di Ken Loach. Mi è servito, comunque, andare poi a studiare sull'apposito libro di testo le parti relative a quegli argomenti ma l'ho fatto con uno spirito diverso rispetto a quello con cui mi sarei dedicato all'apprendimento di nozioni noiose sulle grigie pagine di un manuale. L'ho fatto con interesse, con l'interesse di capire il contesto in cui si svolgeva ciò che avevo visto o letto e di inquadrare la singola vicenda in un panorama più ampio. E ho anche ricordato tutto più facilmente, io che non ho una gran memoria.
Non so se qualcosa di analogo possa avvenire con lo scambio di conoscenze tra pari che si ha nella rete.
Di certo, so che non abbandonai la lettura di Cent'anni di solitudine di Marquez (e ne valse la pena)  perchè una mia amica mi disse che era un bel libro, mentre molti testi che, secondo il canone scolastico, "vanno letti", sono stati gettati nuovamente nella mia libreria dopo tre pagine, proprio perchè mi era mancato, per andare oltre il primo capitolo, quell'impulso "umano" che li rendesse qualcosa di più che un insieme ordinato di fogli rilegati.
Vi lascio con The Crystal Ship dei Doors (con un passaggio della tastiera di Manzarek, dopo la seconda strofa, che mi dà i brividi ogni volta che lo ascolto), perchè anche il rock e quanto ruota intorno ad esso (i dischi prestati agli amici e da essi ricevuti, gli accordi di questo o quel pezzo appresi o insegnati, i testi dei brani trascritti, tradotti e meditati e la lista potrebbe protrarsi ancora a lungo) sono forme - spesso anche molto sviluppate - di scambio di conoscenze tra pari.

sabato 26 marzo 2011

Led Zeppelin, "Tangerine"

E' una canzone poco nota degli Zep, da un disco che, all'epoca in cui uscì (1970), suscitò non poche perplessità. Arrivò al primo posto della classifica americana e inglese ma parte dei fan e della critica mostrarono di non gradire il brusco mutamento musicale del gruppo. Infatti, nel lato B dell'LP, i Led Zeppelin si distaccavano dall'hard rock che li aveva resi celebri e cui avevano comunque lasciato spazio nella prima parte dell'album (in particolare, con la splendida Immigrant song) e si addentravano in sonorità vicine al folk. Nel ritiro di Bron-Yr-Aur, in Galles, dove fu composta gran parte del disco, Jimmy Page aveva abbandonato la chitarra elettrica in favore di quella acustica, gli Zep avevano smesso l'abito rock-blues delle origini per dimostrarsi musicisti completi, capaci di sperimentare.
Così, nel lato B di "Led Zeppelin III" trovano posto l'arrangiamento del brano tradizionale Gallows Pole, un omaggio al cantante folk Roy Harper (Hats off to (Roy) Harper), la velata riflessione sull'ecologia di That's the way. E poi c'è Tangerine. Una canzone d'amore, un brano che parla di giorni d'estate passati nel rimpianto con una dolcezza inusuale per gli Zep. Ascoltandola, non si può fare a meno di pensare a un altro pezzo, iniziato a scrivere a Bron-Yr-Aur e che, pubblicato l'anno successivo in Led Zeppelin IV, consegnerà alla storia Jimmy Page e compagni. Di fatto, la prima parte acustica di Stairway to heaven è figlia delle atmosfere soffuse di Tangerine e l'intera canzone non è che la miglior sintesi di tutto quello che gli Zeppelin sono stati, un percorso a ritroso dal lato B di "Led Zeppelin III" all'hard rock di Immigrant Song e di Communication Breakdown. Ma di questo parleremo poi. Per ora, vi lascio con Tangerine, di cui trovate qui sotto il testo.

Measuring a summer's day,
I only find it slips away to grey,
The hours, they bring me pain.

Tangerine, Tangerine,
Living reflections from a dream;
I was her love, she was my queen,
And now a thousand years between.

Thinking how it used to be,
Does she still remember times like these?
To think of us again?
And I do.

mercoledì 23 marzo 2011

(Take another little) piece of my heart: breve vita triste di Janis Joplin

Ogni volta che ascolto Janis Joplin mi torna sempre in mente una frase. L'ho letta qualche anno fa, in un articolo di Rolling Stone che parlava della profonda solitudine in cui la cantante si trovò a vivere anche nei suoi momenti di massima popolarità. Parlava di una vita triste, in cui ella si accontentava di brevi relazioni con i pusher che le fornivano la droga pur - come si dice spesso in modo abbastanza orribile - di "non morire". Ebbene, in quell'articolo si riportava una frase della Joplin, che sintetizzava al meglio l'esistenza che ella conduceva, un'esistenza dominata dal successo personale, certo, ma anche dalla totale assenza di affetti. Ella diceva: "Sul palco, faccio l'amore con venticinquemila persone, poi torno a casa sola". Morì nel 1970, stroncata da un'overdose di eroina e da quella maledizione che fulminò, tra il 1970 e il 1971, anche gli altri due principali esponenti della scena rock di quegli anni, Jim Morrison e Jimi Hendrix. Avevano tutti e tre ventisette anni.
Janis Joplin era diventata famosa come cantante del gruppo Big Brother & the Holding Company, in cui era entrata nel 1966. Pubblicarono il loro album d'esordio, omonimo, nel 1968, e in quello stesso anno giunsero al successo con la registrazione del live Cheap Thrills - la cui copertina fu disegnata dal grande fumettista statunitense Robert Crumb - che li proiettò al primo posto delle classifiche. Cheap Thrills conteneva quelle che poi sarebbero state ricordate come le migliori canzoni di Janis Joplin, come la splendida interpretazione dello standard Summertime e la rilettura di un brano che era passato in precedenza abbastanza inosservato, nella versione che Erma Franklin (sorella di Aretha) ne aveva dato l'anno precedente.
Quel brano era Piece of my heart e lo potete ascoltare qui sotto.

martedì 22 marzo 2011

The Doors, "Riders on the storm"

E' il tipo di canzone che mi piace ascoltare d'estate, come del resto la maggior parte della discografia dei Doors. In generale, il gruppo di Jim Morrison mi fa pensare a tre cose: al film "Easy Rider"(capolavoro assoluto, per quanto mi riguarda, che si rifaceva, tra l'altro, al "Sorpasso" di Dino Risi), a come dovevano essere, in quegli anni, le notti estive sulle spiagge californiane e a un indefinito senso di libertà che appariva, quando i Doors scrivevano le loro canzoni, a portata di mano.
"Riders on the Storm" è però il canto del cigno dei Doors. E' la traccia conclusiva di "L.A.Woman", pubblicato nell'aprile 1971, tre mesi prima della morte del Re Lucertola a Parigi e sembra un brano scritto con la volontà di chiudere un cerchio. Un brano che torna alle atmosfere del primo album, a quella vena creativa che, dopo "The Doors" e "Strange Days", Jim Morrison e compagnia sembravano, tranne rare eccezioni, avere smarrito, che recupera, con il lungo e ipnotico assolo iniziale di Manzarek, con la voce di Morrison che sussurra le parole della canzone durante il brano, il tono sacrale di pezzi come "The End" . Anche il testo ha un tono conclusivo, un'estrema riflessione di Morrison sul senso di un'esistenza da "cavalieri nella tempesta/ gettati in questo mondo/ come cani senza un osso". L'estremo capolavoro di un poeta del rock.

Riders on the storm
Riders on the storm
Into this house we're born
Into this world we're thrown
Like a dog without a bone
And actor out on loan
Riders on the storm

There's a killer on the road
His brain is squirmin' like a toad
Take a long holiday
Let your children play
If ya give this man a ride
Sweet family will die
Killer on the road, yeah

Girl ya gotta love your man
Girl ya gotta love your man
Take him by the hand
Make him understand
The world on you depends
Our life will never end
Gotta love your man, yeah

Wow!

Riders on the storm
Riders on the storm
Into this house we're born
Into this world we're thrown
Like a dog without a bone
And actor out on loan
Riders on the storm

Riders on the storm

Ancora Guccini: "Incontro"

"Incontro" è, a mio parere, una delle canzoni più belle di Guccini. Ha quel sottile velo di malinconia, fatto di occasioni mancate, di giorni 'perduti a rincorrere il vento'(come dice De Andrè), di rimpianti, che avvolge una storia apparentemente banale - un ritrovarsi dopo molti anni, dopo la fine della giovinezza, di molti sogni e illusioni - facendola risuonare dell'amara consapevolezza di una sconfitta. Sconfitta che è in primo luogo personale: i protagonisti della canzone hanno dovuto abbandonare i loro aneliti a un'esistenza diversa rispetto alla realtà in cui erano cresciuti per calarsi nell'identico grigiore da cui avevano sognato di fuggire. La vita, il tempo hanno lasciato segni indelebili su di loro e forse sull'intera loro generazione, su quella generazione che aveva vagheggiato l'America e aveva dovuto infine accettare quella che Guccini chiama la nostra città tanto triste.  Ciò che resta è solo un senso di disorientamento, che viene espresso nell'ultima strofa.
Sulla genesi della canzone il cantautore di Pavana disse: "'Incontro' parla di un'amica mia che, bontà sua, era innamorata di me. Era anche molto carina, ma aveva poche tette e io ero molto sensibile all'argomento (...) Poi si trasferì a Berlino e fu lì che s'innamorò di un altro, un tipo piuttosto instabile, purtroppo: s'impiccò. Al suo ritorno in Italia, la mia amica venne subito a cercarmi per raccontarmi cos'era successo. Andai a trovarla e dopo quel pomeriggio trascorso insieme scrissi 'Incontro'".
La canzone fu pubblicata nel capolavoro "Radici"(1972); di seguito vi propongo il testo e un Guccini d'annata che esegue "Incontro" al programma "Ciao torno subito" nel 1973.

 E correndo, mi incontrò lungo le scale, quasi nulla mi sembrò cambiato in lei;
la tristezza poi ci avvolse come miele per il tempo scivolato su noi due.
Il sole che calava già rosseggiava la città
già nostra e ora straniera e incredibile e fredda. 
Come un istante deja vu, l'ombra della gioventù, ci circondava la nebbia...

Auto ferme ci guardavano in silenzio, vecchi muri proponevan nuovi eroi,
dieci anni da narrare l'uno all' altro ma le frasi rimanevan dentro in noi:
"Cosa fai ora? Ti ricordi? Eran belli i nostri tempi,
ti ho scritto - è un anno - mi han detto che eri ancor via".
E poi la cena a casa sua, la mia nuova cortesia, stoviglie color nostalgia...

E le frasi, quasi fossimo due vecchi, rincorrevan solo il tempo dietro a noi,
per la prima volta vidi quegli specchi, capii i quadri, i soprammobili ed i suoi.
I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway,
il sentirsi nuovi, le cose sognate e ora viste:
la mia America e la sua diventate nella via la nostra città tanto triste...

Carte e vento volan via nella stazione, freddo e luci accesi forse per noi lì
ed infine, in breve, la sua situazione, uguale quasi a tanti nostri films:
come in un libro scritto male, lui s' era ucciso per Natale,
ma il triste racconto sembrava assorbito dal buio:
povera amica che narravi dieci anni in poche frasi ed io i miei in un solo saluto...

E pensavo dondolato dal vagone: "Cara amica il tempo prende il tempo dà...
noi corriamo sempre in una direzione ma qual sia e che senso abbia chi lo sa...
restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento,
le luci nel buio di case intraviste da un treno:
siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno..."




domenica 20 marzo 2011

Su Riccardo Bertoncelli e "L'avvelenata" di Guccini


Girando su Youtube, ho trovato questo video in cui Riccardo Bertoncelli, critico musicale con cui Guccini non fu esattamente tenero nell'"Avvelenata" spiega le motivazioni per cui fu citato nella canzone e racconta quanto avvenne in seguito. Riassumendo (poi i più volenterosi potranno anche sentire il tutto dalla viva voce del Bertoncelli nel video), il critico aveva stroncato pesantemente l'album "Stanze di vita quotidiana" del cantautore di Pavana; Guccini non gradì e, quando scrisse, di getto, quella che egli chiamò "La canzone avvelenata" e che sarebbe diventata poi semplicemente "L'avvelenata", inserì in quel duro sfogo contro tutto e tutti anche il famoso verso: "Tanto ci sarà sempre, lo sapete/un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate". Quando Bertoncelli seppe della canzone, telefonò a Guccini (egli dice di aver trovato il numero sulla guida telefonica, provate oggi a cercare sull'elenco della città di residenza il recapito del signor Rossi Vasco o Ligabue Luciano) e lo incontrò. Dopo averlo conosciuto, Guccini voleva togliere il riferimento al critico nella "Canzone avvelenata"; questi tuttavia rifiutò e il brano fu poi pubblicato nel capolavoro "Via Paolo Fabbri 43" come "L'avvelenata"(che trovate qui sotto).

sabato 19 marzo 2011

Mia madre mi disse... (su Fabrizio de Andrè e su "Sally")

Sally è, a mio parere, una delle canzoni più belle di Fabrizio de Andrè. Tratta da un album criptico e triste come "Rimini", essa è una storia comune, la storia di un distacco e di una crescita che portano solo ad una cupa disillusione. La prima strofa e, in parte, la seconda sono riprese da una filastrocca inglese:

My mother said that I never should
Play with the gypsies in the wood,
The wood was dark; the grass was green;
In came Sally with a tambourine.

I went to the sea - no ship to get across;

I paid ten shillings for a blind white horse;
I up on his back and was off in a crack,
Sally, tell my mother I shall never come back.

Da tale testo, il cantautore genovese riprende il tema del distacco dalla madre, della trasgressione a quanto da essa prescritto ("non giocare con gli zingari nel bosco") che permette al protagonista di avviare la ricerca di una propria dimensione esistenziale. Il suo viaggio si fa dunque, oltre che reale, simbolico, è il viaggio di una giovinezza che avanza piena di speranze verso l'età adulta, attratta da una figura, quella di Sally, in bilico tra il simbolico e il reale. Chi è Sally? E' l'emblema di una libertà impossibile, del sogno di potersi affrancare dall'autorità familiare senza al contempo doversi sottomettere ad un ordine sociale prestabilito ed è insieme una donna reale, forse amata, che induce alla prima, ingenua, ribellione il protagonista.
Ma il viaggio continua, non si può tornare più indietro (il personaggio che parla dice di aver varcato il mare sulla groppa di un pesciolino d'oro), e il protagonista entra in contatto con una realtà degradata, fatta di droga (Pilar del mare, che "con due gocce di eroina si addormentava il cuore"), violenza (Pilar dei meli, uccisa con una coltellata al cuore) ed è costretto infine ad accettare il braccialetto del re dei topi, segnando in questo modo la fine delle speranze che aveva riposto nella propria fuga e accettando una nuova autorità, decisamente peggiore di quella materna.
L'ultima strofa, che riprende la prima, ha il sapore aspro del rimpianto e sembra di sentire l'eco lontana degli ultimi versi del Sabato del villaggio di Leopardi:
 Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.

Di seguito riporto il testo della canzone:

Mia madre mi disse: "Non devi giocare
con gli zingari nel bosco."
Mia madre mi disse: "Non devi giocare
con gli zingari nel bosco."

Ma il bosco era scuro l'erba già verde
lì venne Sally con un tamburello
ma il bosco era scuro l'erba già alta
dite a mia madre che non tornerò.

Andai verso il mare senza barche per traversare
spesi cento lire per un pesciolino d'oro.
Andai verso il mare senza barche per traversare
spesi cento lire per un pesciolino cieco.

Gli montai sulla groppa sparii in un baleno
andate a dire a Sally che non tornerò.
Gli montai sulla groppa sparii in un momento
dite a mia madre che non tornerò.

Vicino alla città trovai Pilar del mare
con due gocce d'eroina s'addormentava il cuore.
Vicino alle roulottes trovai Pilar dei meli
bocca sporca di mirtilli un coltello in mezzo ai seni.

Mi svegliai sulla quercia l'assassino era fuggito
dite al pesciolino che non tornerò.
Mi guardai nello stagno l'assassino s'era già lavato
dite a mia madre che non tornerò.

Seduto sotto un ponte si annusava il re dei topi
sulla strada le sue bambole bruciavano copertoni.
Sdraiato sotto il ponte si adorava il re dei topi
sulla strada le sue bambole adescavano i signori.

Mi parlò sulla bocca mi donò un braccialetto
dite alla quercia che non tornerò.
Mi baciò sulla bocca mi propose il suo letto
dite a mia madre che non tornerò.

Mia madre mi disse - Non devi giocare
con gli zingari del bosco.
Ma il bosco era scuro l'erba già verde
lì venne Sally con un tamburello

 

venerdì 18 marzo 2011

Assignement 1 bis

Dopo aver cercato un po' in giro, riporto di seguito (ordinate secondo la difficoltà che ho avuto a reperire i link) le modalità per accedere ai feed rss di Rolling Stone magazine, del Corriere della Sera e del Fatto Quotidiano.
Per quanto riguarda Rolling Stone, è sufficiente fare clic sull'icona del feed rss posta vicino all'immagine principale per essere indirizzati all'elenco dei feed.

Relativamente al Corriere della Sera, invece, è necessario prima cliccare sull'icona del feed rss posta poco sotto il titolo, a destra:


In seguito, è sufficiente selezionare dall'elenco la sezione della quale si vogliono avere i feed rss:


Passando al Fatto Quotidiano, vi è una complicazione in quanto il collegamento per i feed risulta un po' nascosto. Comunque, è necessario prima di tutto far scorrere la pagina:

Sarà ora possibile individuare il collegamento per i feed all'estrema destra della pagina, vicino alla prima serie di articoli dopo il titolo principale del giornale:


Facendo clic sull'icona, si apre la pagina con le sezioni di cui è possibile ricevere i feed rss. Anche qui sorge però una complicazione: infatti, per accedere all'elenco dei feed rss non bisogna selezionare il titolo della sezione ma fare clic sulla scritta "rss" tra parentesi:












Spero che la spiegazione sia stata chiara.

giovedì 17 marzo 2011

What became of the likely lads?

Prima che Pete Doherty diventasse il trasgressivo signor Kate Moss, noto alle cronache più per i suoi eccessi e per la sua relazione con la modella inglese che per la sua musica, i Libertines erano uno dei pochi gruppi in circolazione che facessero del buon indie rock senza che il loro sound risultasse eccessivamente nostalgico o, al contrario, difficilmente digeribile per l'ascoltatore. Comprai il loro secondo album, 'The Libertines', nel 2005, quando ormai era già esplosa, nella band, la crisi che l'avrebbe portata, quello stesso anno, allo scioglimento. Ricordo che ne rimasi molto colpito; erano ancora tempi di CD e lettori appositi e ricordo che ascoltai quel disco quasi ininterrottamente per due mesi. Fui quasi sul punto di rinnegare la mia principale convinzione, relativamente al rock, ossia che esso è morto nel 1980 con John Bonham dei Led Zeppelin e che tutto quello che è venuto dopo quella data non è che una misera imitazione di quanto realizzato in precedenza. Un po' quello che alcuni sostengono di Paul McCartney, che sia cioè deceduto nel 1966 in un incidente stradale e che quello attualmente in circolazione non sia che un sosia. Comunque, non ebbi il tempo di rimuovere quella mia atavica convinzione che i Libertines già non c'erano più e dalle loro ceneri erano nati gruppi abbastanza convenzionali (Babyshambles su tutti, fondati da Doherty) che nulla avevano del sound ruvido e della creatività dimostrata dalla band londinese nei suoi anni di attività. Da allora, la musica scomparve e rimasero solo le questioni private di Pete Doherty e varie reunion occasionali l'ultima delle quali, l'anno scorso, ha restituito forse almeno l'antica coesione al gruppo.
Di seguito vi propongo "Can't stand me now".


P.S.: il titolo del post deriva dall'ultima canzone dell'album che comprai nel 2005, il cui ritornello ("Che ne è stato dei ragazzi promettenti?/Che ne è stato dei sogni che avevamo?") sembra quasi, risentendolo oggi, un'oscura premonizione su quello che sarebbe stato il futuro di Carl Barat e Pete Doherty, in arte The Libertines.

Le vacanze intelligenti

Non so se vi è capitato (è il tipo di film che danno su rete4 verso le 11 di sera) di vedere questo episodio della commedia "Dove vai in vacanza?" del 1978 che ironizza sul difficile rapporto dell'italiano medio con la cultura cosiddetta alta. Nel film, Remo e Augusta Proietti (Alberto Sordi, che firma anche la regia, e Anna Longhi) vengono spediti dai figli intellettualoidi in una vacanza ad alta densità culturale, nella quale sono previste visite a musei vari, la visione di un concerto di musica contemporanea e perfino un'incursione alla Biennale di Venezia. Corollario di tutto ciò è una dieta estremamente rigida loro imposta dal figlio medico. Ovviamente l'esito è esilarante, con almeno due momenti memorabili: la già citata visita alla Biennale di Venezia, che vi propongo di seguito, e il concerto di musica contemporanea.

 


martedì 15 marzo 2011

L'ombrello e la macchina da cucire

Brano di Franco Battiato dall'album omonimo che, pubblicato nel 1995, segnò l'inizio della collaborazione del cantante siciliano con il filosofo Manlio Sgalambro. Essi, in precedenza, avevano lavorato insieme alla realizzazione dell'opera Il cavaliere dell'intelletto, rappresentata per la prima volta nel 1994 a Palermo; tuttavia, con la pubblicazione de L'ombrello e la macchina da cucire, che arrivò al quinto posto nelle classifiche e che segnò il ritorno di Battiato a sonorità maggiormente sperimentali, la collaborazione occasionale divenne sodalizio e il sodalizio produsse altre tre opere, un numero imprecisato di canzoni e album e perfino due film (Perduto amor e Musikanten).
Riporto di seguito il testo della canzone.
Ero solo come un ombrello su una
macchina da cucire.
Dalle pendici dei monti Iblei,
a settentrione.
Ho percorso il cammino, arrampicandomi
per universi e mondi,
con atti di pensiero e umori cerebrali.
L'abisso non mi chiama, sto sul ciglio
come un cespuglio: quieto come un insetto
che si prende il sole.
Scendevo lungo il fiume scrollando le spalle...
Che cena infame stasera,
che pessimo vino,
chiacchiero col vicino.
Lei non ha finezza,
non sa sopportare l'ebbrezza.
Colgo frasi occidentali.
Schizzano dal cervello i pensieri -
fini le calze,
la Coscienza trascendentale,
no, l'Idea si incarna.
Dice che questa estate
ci sarà la fine del mondo.
The end of the world,
berretto di pelo e sottanina di tàrtan.
Have we cold feet about the cosmos?
 

lunedì 14 marzo 2011

Bruno Maderna: l'arte della casualità

Bruno Maderna aveva una convinzione: in musica, casuale è bello. Pertanto, quando nel 1969 scrive la Serenata per un satellite, dedicata al fisico Umberto Montalenti, che aveva diretto la progettazione del satellite europeo ESTRO I, elabora una partitura costituita da brevi frammenti musicali disposti in modo caotico sullo spartito (che trovate riprodotto più in basso). Molto, in questo brano è lasciato all'arbitrio di chi lo suonerà: la durata (Maderna scrive "da un minimo di 4 a un massimo di 12 minuti"), la composizione dell'organico (ancora Maderna: "possono suonarla violino, flauto - anche ottavino - oboe - anche oboe d'amore, anche musette - clarinetto, marimba, arpa, chitarra e mandolino, tutti insieme o separati o a gruppi"), perfino quali frasi tra quelle riportate sulla parte suonare e in che ordine. L'unico limite che il compositore pone alla libertà creativa degli strumentisti è l'obbligo di suonare le note da lui scritte.


L'utilizzo della casualità nella stesura dei pezzi era stata teorizzata nell'ambito della cosiddetta musica aleatoria, nello sviluppo della quale fondamentale era stato l'apporto del solito John Cage. Cage, in particolare, aveva scritto un pezzo, Imaginary Landscape n.4,  in cui aveva utilizzato dodici radio la cui frequenza doveva essere costantemente variata dagli esecutori, con risultati ovviamente diversi da esecuzione a esecuzione e imprevedibili.
Maderna fu il primo a recepire, in Italia, la novità rappresentata dalla musica aleatoria e la Serenata per un satellite rappresenta uno dei rarissimi casi in cui un compositore sia riuscito a giungere, mediante l'impiego della casualità, ad esiti abbastanza godibili per l'ascoltatore.
Il brano fu eseguito per la prima volta la sera del 1° ottobre 1969. Quello stesso giorno, il satellite ESRO I fu messo in orbita.
Di seguito, una delle tante versioni possibili della Serenata.

 

domenica 13 marzo 2011

John Cage ovvero come mettere delle viti in un piano e vivere felici

John Cage è stato senza dubbio uno dei personaggi più dirompenti nel panorama della musica di ricerca del Novecento. Compositore poliedrico, è oggi noto principalmente per il seguente brano(4'33''), che consiste nel NON suonare un qualsiasi strumento per 4'33''. L'idea del brano è quella di far ascoltare il silenzio, un silenzio tuttavia che si riempie dei suoni dell'ambiente che circonda lo spettatore. Tali suoni accidentali, diversi di volta in volta, diventano così musica.


Ma la ricerca musicale di Cage comprende anche altro; in particolare, sarà fondamentale per le successive evoluzioni della cosiddetta musica contemporanea la sperimentazione della tecnica del piano preparato. Egli realizza infatti vari brani (Bacchanale, i pezzi di Sonatas and Interludes) in cui modifica il timbro originario dello strumento inserendo all'interno della cordiera oggetti come viti, bulloni, pezzi di gomma, perfino una piastra di metallo. Il pianoforte, così, non esprime più gli astratti furori di uno Chopin o di un Liszt, Cage lo riporta, con questa tecnica, alle sue origini di strumento a percussione conferendogli inoltre un che di primitivo e tribale.
Di seguito viene mostrata la procedura di preparazione di un pianoforte e l'effetto che essa produce (il brano suonato è la Sonata V di Cage).

venerdì 11 marzo 2011

Su Battiato, Breton e un tavolo operatorio

Il nome di questo blog deriva, oltre che dalla canzone di Battiato "l'ombrello e la macchina da cucire", da una frase di Max Ernst, pittore vicino alle idee dello scrittore francese André Breton. Scrittore particolare, Andrè Breton, che aveva studiato da medico e che si avvicinò al dadaismo prima di fondare il movimento surrealista. L'atto di fondazione dell'avanguardia avviene nel 1924, con il "Manifesto del Surrealismo": la prima guerra mondiale, in risposta alla quale era nato il dadaismo con la sua carica dissacratoria contro le convenzioni borghesi, è finita da sei anni e Breton si accorge che la provocazione dei vari Duchamp e Tzara non è più sufficiente. E' necessario produrre un'arte che cerchi di proporre un sistema di conoscenza alternativo e lo scrittore francese propone delle tecniche per lasciare libera espressione all'inconscio nella creazione artistica. L'irrazionalità, il sogno, le pulsioni non manifestate e rimosse dovranno diventare il fulcro dell'opera dei surrealisti. Nasce una nuova idea di bellezza: Max Ernst definirà il bello come "l'incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio".

Il video seguente, tratto dal principale film surrealista, il cortometraggio "Un chien andalou" di Luis Buñuel e Salvador Dalì, permette di comprendere la vocazione all'irrazionale e alla visione onirica di questa avanguardia.



mercoledì 9 marzo 2011

Steve Reich "The Cave"

Brano di Steve Reich, tanto per cominciare, dall'opera multimediale "The Cave", opera interessante, almeno nelle intenzioni(talvolta l'esito musicale è invece lievemente monotono). L'idea di base è molto semplice: tutti, quando parliamo, descriviamo, inconsapevolmente, una linea melodica, che Reich isolò mettendo in loop frammenti di interviste da lui realizzate. In seguito, realizzò un'accompagnamento strumentale a tale linea melodica. L'effetto è particolare(si ha infatti l'impressione che le persone che parlano cantino) e dimostra come, anche in ambito musicale, si possano effettuare opere fortemente sperimentali senza che esse risultino eccessivamente ostiche per l'ascoltatore.