Ero solo come un ombrello su una macchina da cucire. Dalle pendici dei monti Iblei, a settentrione, ho percorso il cammino, arrampicandomi per universi e mondi, con atti di pensiero e umori cerebrali. L’abisso non mi chiama, sto sul ciglio come un cespuglio: quieto come un insetto che si prende il sole.

da "L'ombrello e la macchina da cucire", F.Battiato

lunedì 28 marzo 2011

The Who, "Tommy" e la prima opera rock


Così comincia Tommy. La prima opera rock della storia, secondo le cronache - in realtà preceduta di pochi mesi da Arthur dei Kinks e da S.F.Sorrow dei Pretty Things - fu pubblicata dagli Who nel 1969 e acquistata dal sottoscritto più o meno trentacinque anni dopo. E' un album di un'altra epoca, Tommy, di un'epoca in cui i dischi si incidevano non per dare un involucro più costoso a due o tre singoli di successo ma per cercare di trasmettere un'idea, di far entrare, per il breve spazio delle canzoni contenute sulla facciata dell'LP, l'ascoltatore in una dimensione diversa. Tommy non racconta semplicemente la storia di un bambino che diventa cieco, muto e sordo per aver assistito all'omicidio dell'amante della madre da parte del padre e che, una volta cresciuto, riesce a recuperare i sensi perduti; esso è piuttosto una cavalcata in un mondo onirico, popolato di personaggi grotteschi e caricaturali attraverso una musica capace di mutare sempre, adeguandosi allo svolgersi della vicenda allucinata del protagonista.
Di questo album gli Who realizzarono anche una versione cinematografica che però risulta secondo me abbastanza deludente. E per un motivo: nel film, al centro si ha la storia di Tommy, che è abbastanza inverosimile, si ha l'assurda pretesa di poter fare una sorta di opera con tanto di personaggi che cantano. Nel disco, invece, Townshend fa emergere una sua nitida denuncia contro un mondo ipocrita, violento e oppressivo; Tommy diventa il simbolo di chi da quel mondo è isolato e il finale, con il protagonista che riacquista vista, udito e ricomincia a parlare non è che una speranza, la speranza di una riconciliazione, di una integrazione in quella realtà, divenuta più accogliente.
Di seguito, un frammento del film Tommy con Christmas e See me, feel me, autentico grido di dolore, quest'ultimo, lanciato dal protagonista in più punti dell'album.

domenica 27 marzo 2011

Assignment 3 (& "The Crystal Ship" dei Doors)

Ripensandoci, in effetti è vero. Che tutto quello che so e ho imparato sulla Francia della Restaurazione e della monarchia di Luglio viene soprattutto dalla lettura di Stendhal piuttosto che dal paragrafo 14 o 22 del tomo B di un libro di storia. Che ho capito realmente la rivoluzione russa sulle pagine di Majakovskij e la guerra di Spagna guardando il film (splendido) Terra e Libertà di Ken Loach. Mi è servito, comunque, andare poi a studiare sull'apposito libro di testo le parti relative a quegli argomenti ma l'ho fatto con uno spirito diverso rispetto a quello con cui mi sarei dedicato all'apprendimento di nozioni noiose sulle grigie pagine di un manuale. L'ho fatto con interesse, con l'interesse di capire il contesto in cui si svolgeva ciò che avevo visto o letto e di inquadrare la singola vicenda in un panorama più ampio. E ho anche ricordato tutto più facilmente, io che non ho una gran memoria.
Non so se qualcosa di analogo possa avvenire con lo scambio di conoscenze tra pari che si ha nella rete.
Di certo, so che non abbandonai la lettura di Cent'anni di solitudine di Marquez (e ne valse la pena)  perchè una mia amica mi disse che era un bel libro, mentre molti testi che, secondo il canone scolastico, "vanno letti", sono stati gettati nuovamente nella mia libreria dopo tre pagine, proprio perchè mi era mancato, per andare oltre il primo capitolo, quell'impulso "umano" che li rendesse qualcosa di più che un insieme ordinato di fogli rilegati.
Vi lascio con The Crystal Ship dei Doors (con un passaggio della tastiera di Manzarek, dopo la seconda strofa, che mi dà i brividi ogni volta che lo ascolto), perchè anche il rock e quanto ruota intorno ad esso (i dischi prestati agli amici e da essi ricevuti, gli accordi di questo o quel pezzo appresi o insegnati, i testi dei brani trascritti, tradotti e meditati e la lista potrebbe protrarsi ancora a lungo) sono forme - spesso anche molto sviluppate - di scambio di conoscenze tra pari.

sabato 26 marzo 2011

Led Zeppelin, "Tangerine"

E' una canzone poco nota degli Zep, da un disco che, all'epoca in cui uscì (1970), suscitò non poche perplessità. Arrivò al primo posto della classifica americana e inglese ma parte dei fan e della critica mostrarono di non gradire il brusco mutamento musicale del gruppo. Infatti, nel lato B dell'LP, i Led Zeppelin si distaccavano dall'hard rock che li aveva resi celebri e cui avevano comunque lasciato spazio nella prima parte dell'album (in particolare, con la splendida Immigrant song) e si addentravano in sonorità vicine al folk. Nel ritiro di Bron-Yr-Aur, in Galles, dove fu composta gran parte del disco, Jimmy Page aveva abbandonato la chitarra elettrica in favore di quella acustica, gli Zep avevano smesso l'abito rock-blues delle origini per dimostrarsi musicisti completi, capaci di sperimentare.
Così, nel lato B di "Led Zeppelin III" trovano posto l'arrangiamento del brano tradizionale Gallows Pole, un omaggio al cantante folk Roy Harper (Hats off to (Roy) Harper), la velata riflessione sull'ecologia di That's the way. E poi c'è Tangerine. Una canzone d'amore, un brano che parla di giorni d'estate passati nel rimpianto con una dolcezza inusuale per gli Zep. Ascoltandola, non si può fare a meno di pensare a un altro pezzo, iniziato a scrivere a Bron-Yr-Aur e che, pubblicato l'anno successivo in Led Zeppelin IV, consegnerà alla storia Jimmy Page e compagni. Di fatto, la prima parte acustica di Stairway to heaven è figlia delle atmosfere soffuse di Tangerine e l'intera canzone non è che la miglior sintesi di tutto quello che gli Zeppelin sono stati, un percorso a ritroso dal lato B di "Led Zeppelin III" all'hard rock di Immigrant Song e di Communication Breakdown. Ma di questo parleremo poi. Per ora, vi lascio con Tangerine, di cui trovate qui sotto il testo.

Measuring a summer's day,
I only find it slips away to grey,
The hours, they bring me pain.

Tangerine, Tangerine,
Living reflections from a dream;
I was her love, she was my queen,
And now a thousand years between.

Thinking how it used to be,
Does she still remember times like these?
To think of us again?
And I do.

mercoledì 23 marzo 2011

(Take another little) piece of my heart: breve vita triste di Janis Joplin

Ogni volta che ascolto Janis Joplin mi torna sempre in mente una frase. L'ho letta qualche anno fa, in un articolo di Rolling Stone che parlava della profonda solitudine in cui la cantante si trovò a vivere anche nei suoi momenti di massima popolarità. Parlava di una vita triste, in cui ella si accontentava di brevi relazioni con i pusher che le fornivano la droga pur - come si dice spesso in modo abbastanza orribile - di "non morire". Ebbene, in quell'articolo si riportava una frase della Joplin, che sintetizzava al meglio l'esistenza che ella conduceva, un'esistenza dominata dal successo personale, certo, ma anche dalla totale assenza di affetti. Ella diceva: "Sul palco, faccio l'amore con venticinquemila persone, poi torno a casa sola". Morì nel 1970, stroncata da un'overdose di eroina e da quella maledizione che fulminò, tra il 1970 e il 1971, anche gli altri due principali esponenti della scena rock di quegli anni, Jim Morrison e Jimi Hendrix. Avevano tutti e tre ventisette anni.
Janis Joplin era diventata famosa come cantante del gruppo Big Brother & the Holding Company, in cui era entrata nel 1966. Pubblicarono il loro album d'esordio, omonimo, nel 1968, e in quello stesso anno giunsero al successo con la registrazione del live Cheap Thrills - la cui copertina fu disegnata dal grande fumettista statunitense Robert Crumb - che li proiettò al primo posto delle classifiche. Cheap Thrills conteneva quelle che poi sarebbero state ricordate come le migliori canzoni di Janis Joplin, come la splendida interpretazione dello standard Summertime e la rilettura di un brano che era passato in precedenza abbastanza inosservato, nella versione che Erma Franklin (sorella di Aretha) ne aveva dato l'anno precedente.
Quel brano era Piece of my heart e lo potete ascoltare qui sotto.

martedì 22 marzo 2011

The Doors, "Riders on the storm"

E' il tipo di canzone che mi piace ascoltare d'estate, come del resto la maggior parte della discografia dei Doors. In generale, il gruppo di Jim Morrison mi fa pensare a tre cose: al film "Easy Rider"(capolavoro assoluto, per quanto mi riguarda, che si rifaceva, tra l'altro, al "Sorpasso" di Dino Risi), a come dovevano essere, in quegli anni, le notti estive sulle spiagge californiane e a un indefinito senso di libertà che appariva, quando i Doors scrivevano le loro canzoni, a portata di mano.
"Riders on the Storm" è però il canto del cigno dei Doors. E' la traccia conclusiva di "L.A.Woman", pubblicato nell'aprile 1971, tre mesi prima della morte del Re Lucertola a Parigi e sembra un brano scritto con la volontà di chiudere un cerchio. Un brano che torna alle atmosfere del primo album, a quella vena creativa che, dopo "The Doors" e "Strange Days", Jim Morrison e compagnia sembravano, tranne rare eccezioni, avere smarrito, che recupera, con il lungo e ipnotico assolo iniziale di Manzarek, con la voce di Morrison che sussurra le parole della canzone durante il brano, il tono sacrale di pezzi come "The End" . Anche il testo ha un tono conclusivo, un'estrema riflessione di Morrison sul senso di un'esistenza da "cavalieri nella tempesta/ gettati in questo mondo/ come cani senza un osso". L'estremo capolavoro di un poeta del rock.

Riders on the storm
Riders on the storm
Into this house we're born
Into this world we're thrown
Like a dog without a bone
And actor out on loan
Riders on the storm

There's a killer on the road
His brain is squirmin' like a toad
Take a long holiday
Let your children play
If ya give this man a ride
Sweet family will die
Killer on the road, yeah

Girl ya gotta love your man
Girl ya gotta love your man
Take him by the hand
Make him understand
The world on you depends
Our life will never end
Gotta love your man, yeah

Wow!

Riders on the storm
Riders on the storm
Into this house we're born
Into this world we're thrown
Like a dog without a bone
And actor out on loan
Riders on the storm

Riders on the storm

Ancora Guccini: "Incontro"

"Incontro" è, a mio parere, una delle canzoni più belle di Guccini. Ha quel sottile velo di malinconia, fatto di occasioni mancate, di giorni 'perduti a rincorrere il vento'(come dice De Andrè), di rimpianti, che avvolge una storia apparentemente banale - un ritrovarsi dopo molti anni, dopo la fine della giovinezza, di molti sogni e illusioni - facendola risuonare dell'amara consapevolezza di una sconfitta. Sconfitta che è in primo luogo personale: i protagonisti della canzone hanno dovuto abbandonare i loro aneliti a un'esistenza diversa rispetto alla realtà in cui erano cresciuti per calarsi nell'identico grigiore da cui avevano sognato di fuggire. La vita, il tempo hanno lasciato segni indelebili su di loro e forse sull'intera loro generazione, su quella generazione che aveva vagheggiato l'America e aveva dovuto infine accettare quella che Guccini chiama la nostra città tanto triste.  Ciò che resta è solo un senso di disorientamento, che viene espresso nell'ultima strofa.
Sulla genesi della canzone il cantautore di Pavana disse: "'Incontro' parla di un'amica mia che, bontà sua, era innamorata di me. Era anche molto carina, ma aveva poche tette e io ero molto sensibile all'argomento (...) Poi si trasferì a Berlino e fu lì che s'innamorò di un altro, un tipo piuttosto instabile, purtroppo: s'impiccò. Al suo ritorno in Italia, la mia amica venne subito a cercarmi per raccontarmi cos'era successo. Andai a trovarla e dopo quel pomeriggio trascorso insieme scrissi 'Incontro'".
La canzone fu pubblicata nel capolavoro "Radici"(1972); di seguito vi propongo il testo e un Guccini d'annata che esegue "Incontro" al programma "Ciao torno subito" nel 1973.

 E correndo, mi incontrò lungo le scale, quasi nulla mi sembrò cambiato in lei;
la tristezza poi ci avvolse come miele per il tempo scivolato su noi due.
Il sole che calava già rosseggiava la città
già nostra e ora straniera e incredibile e fredda. 
Come un istante deja vu, l'ombra della gioventù, ci circondava la nebbia...

Auto ferme ci guardavano in silenzio, vecchi muri proponevan nuovi eroi,
dieci anni da narrare l'uno all' altro ma le frasi rimanevan dentro in noi:
"Cosa fai ora? Ti ricordi? Eran belli i nostri tempi,
ti ho scritto - è un anno - mi han detto che eri ancor via".
E poi la cena a casa sua, la mia nuova cortesia, stoviglie color nostalgia...

E le frasi, quasi fossimo due vecchi, rincorrevan solo il tempo dietro a noi,
per la prima volta vidi quegli specchi, capii i quadri, i soprammobili ed i suoi.
I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway,
il sentirsi nuovi, le cose sognate e ora viste:
la mia America e la sua diventate nella via la nostra città tanto triste...

Carte e vento volan via nella stazione, freddo e luci accesi forse per noi lì
ed infine, in breve, la sua situazione, uguale quasi a tanti nostri films:
come in un libro scritto male, lui s' era ucciso per Natale,
ma il triste racconto sembrava assorbito dal buio:
povera amica che narravi dieci anni in poche frasi ed io i miei in un solo saluto...

E pensavo dondolato dal vagone: "Cara amica il tempo prende il tempo dà...
noi corriamo sempre in una direzione ma qual sia e che senso abbia chi lo sa...
restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento,
le luci nel buio di case intraviste da un treno:
siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno..."




domenica 20 marzo 2011

Su Riccardo Bertoncelli e "L'avvelenata" di Guccini


Girando su Youtube, ho trovato questo video in cui Riccardo Bertoncelli, critico musicale con cui Guccini non fu esattamente tenero nell'"Avvelenata" spiega le motivazioni per cui fu citato nella canzone e racconta quanto avvenne in seguito. Riassumendo (poi i più volenterosi potranno anche sentire il tutto dalla viva voce del Bertoncelli nel video), il critico aveva stroncato pesantemente l'album "Stanze di vita quotidiana" del cantautore di Pavana; Guccini non gradì e, quando scrisse, di getto, quella che egli chiamò "La canzone avvelenata" e che sarebbe diventata poi semplicemente "L'avvelenata", inserì in quel duro sfogo contro tutto e tutti anche il famoso verso: "Tanto ci sarà sempre, lo sapete/un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate". Quando Bertoncelli seppe della canzone, telefonò a Guccini (egli dice di aver trovato il numero sulla guida telefonica, provate oggi a cercare sull'elenco della città di residenza il recapito del signor Rossi Vasco o Ligabue Luciano) e lo incontrò. Dopo averlo conosciuto, Guccini voleva togliere il riferimento al critico nella "Canzone avvelenata"; questi tuttavia rifiutò e il brano fu poi pubblicato nel capolavoro "Via Paolo Fabbri 43" come "L'avvelenata"(che trovate qui sotto).